Il dilemma.
Propendo per il no, a prescindere, direbbe Toto'.
Pero' il "Circolo Pickwick" rimane una delle mie trasmissioni televisive preferite di tutti i tempi (con il merito di avermi fatto scoprire al tempo un bel po' di bei libri, compreso quello -esilarante- cha ha dato il titolo alla trasmissione).
E poi i vari "Barnum, cronache del grande show" (Feltrinelli) sono state letture divertenti.
Tutte le volte mi dico:
"attento, questo e' un furbetto". Lo leggo con riserva. Con il freno a mano tirato, insomma. Poi pero' in mezzo alla materia fluida della sua scrittura, piena di echi colti di lavoro di altri, trovo quasi sempre un guizzo. Un colpo di tacco inaspettato. Un gioco di suola.
Adesso su Repubblica pubblica a puntate
"I barbari". Non mi dilungo a spiegare: se vi interessa leggetevelo, io lo sto facendo.
Baricco ha un vantaggio: le critiche che gli vengono rivolte lo fanno sembrare sempre migliore. Fabrizio Rondolino (si', lui) su Vanity Fair l'ha voluto stroncare. Ha voluto stroncare "I Barbari" prendendo a pretesto un pezzo su
Benjamin. Risultato chiaro a tutti: Baricco in dieci righe puo' fare una sintesi apprezzabile di Benjamin, Rondolino in venti non riesce a farne una decente su Baricco.
Per capire cos'e' un colpo di tacco di Baricco ecco un estratto del capitolo nove:
Quando io ho iniziato a giocare a pallone erano gli anni sessanta e Moggi e Sky non c'erano ancora. Ero l'unico che non avesse le scarpette da pallone (non eravamo poveri, ma eravamo cattolici di sinistra), per cui giocavo con gli scarponicini da montagna legati alla caviglia: per questo, e secondo una logica stringente, i grandi decisero che dovevo giocare in difesa. Ai tempi ero dell'idea che la vita fosse un compito da assolvere, non una festa da inventare, e quindi mi attenni per anni a quell'indicazione di massima, crescendo con la testa di un difensore e scalando le categorie calcistiche con sulla schiena il numero 3. Era, allora, un numero completamente privo di poesia, ma alludeva a una disciplina rocciosa e imperturbabile. Corrispondeva più o meno all'idea, imperfetta, che mi ero fatto di me. In quel calcio il difensore difendeva. Era un tipo di gioco in cui se avevi sulla schiena il numero 3 potevi giocare decine di partite senza mai passare la linea di centrocampo. Non era richiesto. Se la palla era di là, tu aspettavi di qua, e rifiatavi. La cosa ti dava una strana percezione della partita. Io, per anni, ho visto le mie squadre fare gol lontani e vagamente misteriosi: erano cose che accadevano laggiù, in una parte del campo che non conoscevo e che, ai miei occhi di terzino, replicava l'aura leggendaria di una località balneare, oltre le montagne: donne e gamberoni. Quando si faceva gol, laggiù si abbracciavano, questo me lo ricordo bene. Per anni li ho visti abbracciarsi, da lontano. Ogni tanto mi è anche successo di farmi tutto il campo per raggiungerli, e abbracciarmi anch'io, ma non funzionava tanto: arrivavi sempre un po' dopo, quando la parte proprio svergognata era già finita: ed era come ubriacarsi quando gli altri stanno già tornando a casa. Così, la maggior parte delle volte, rimanevo al mio posto: ci si scambiava un'occhiata sobria, tra difensori. Il portiere, quello era sempre un po' matto: se la cavava da solo.La maglia numero tre. Quella con la quale ho inziato a giocare.
Il mare, le donne e i gamberoni.
Un bel colpo di tacco, no?